Lettera da Kasia
Siamo stati una volta sola in Mustang io e Pietro. Una volta sola. E tanto è bastato per innamorarsi di quel posto, della cultura, della gente…Non avrei mai pensato che esattamente 8 anni dopo sarei tornata, da sola con una figlia, per costruire una scuola!Tutto e cominciato da Pietro. Un giorno è tornato a casa con un’idea, una delle sue tante idee pazze, urlando “Andiamo in Nepal!”. Non so per quale motivo, forse spinto dalla curiosità pura, forse dalla lettura di un libro o di qualche articolo, o forse semplicemente guardando National Geographic che ha sentito parlare dell’antico regno del Mustang e ha deciso di partire.Perché Pietro era così, puro istinto con la curiosità di un bambino, e la voglia matta di fare tutto subito. È riuscito persino a trovare una persona che ci era stata più volte in Mustang, ci aveva abitato, lavorato e ne parlava con grande entusiasmo. Ci è venuta la curiosità di conoscerlo anche per capire meglio di cosa parlasse e alla fine abbiamo deciso di andare a incontrarlo.La persona in questione si chiama Alberto e anche lui sarebbe rimasto nelle nostre vite per tanto tempo.Siamo partiti non molto tempo dopo, era fine luglio. Avevamo con noi tutti gli indirizzi di dove dormire, cosa vedere e cosa non mangiare.Kathmandu 8 anni fa era un posto fuori dal mondo, immerso in un caos totale. E devo dire che negli anni non è cambiato molto. C’è un traffico disordinato di gente, di macchine che si muovono in città con una logica molto lontana dal nostro codice stradale, i clacson non smettono di suonare per un secondo, scimmie e mucche ferme sugli incroci, un miscuglio di odori forti tra incenso, fiori , gas , sangue di animali sgozzati per strada, candele al burro, insomma un’esplosione di sensazioni e un azzardo per i sensi non paragonabile a nulla che avessi visto o incontrato prima. Tutto questo accompagnato dai sorri si e da una serenità percepibile a ogni angolo. Difficile da credere per chi come noi arrivava dal mondo dove tutto è qualche modo in ordine, sotto controllo, sterile.Dopo qualche giorno di adattamento siamo partiti per il Mustang. Due aerei e una notte passata a Pochara (lo stop obbligatorio nel tragitto). Per entrare nel Regno ci sono due strade. Una dal Nord-Tibet, l’altra dal Sud-Nepal. L’arrivo a Jomson non me lo scorderò mai. E ogni volta che ci vado è forse la mia parte preferita del viaggio. Un tuffo. Un volo. Perché il piccolo aereo che porta da Pochara a Jomson sembra un calabrone che passa nel mezzo dei giganti. Giganti di 8 mila metri. Si chiamano così le montagne che circondano l’intera area e la presenza si sente inevitabilmente. E quando l’aereo atterra sulla minuscola pista di Jomson sembra di volare ancora. La sensazione di volare non mi abbandona mai nel Mustang. Ed è la cosa che mi piace di più. Pietro era sopraffatto dalla bellezza di quelle montagne. Mi ricordo lui seduto sul cavallo che allargava le braccia e le sbatteva facendo finta di volare.Ai tempi non c’era ancora la strada quindi l’unico modo per spostarsi era a piedi o a cavallo. Noi chiaramente abbiamo scelto la seconda opzione. A Jomson era venuto a prenderci Tenzin, all’epoca diciannovenne, da poco sposato con Pema di qualche anno più grande di lui. Tenzin e Pema erano degli amici di Alberto e negli anni la loro casa sarebbe diventata anche la mia, le nostre figlie avrebbero dormito insieme e io in un rito speciale sarei diventata “sorella di spirito” di Pema. Ci siamo persi completamente in quel posto. È difficile da spiegare ma per qualche momento indefinito il tempo si era fermato per noi. Eravamo completamente inebriati dalla bellezza dei paesaggi, dalla gentilezza degli abitanti, dalla misticità dei riti e dall’allegria pura. Ma anche dalla totale povertà . Abbiamo trascorso quasi un mese nel Mustang ospitati dalla famiglia di Tenzin e Pema che non hanno voluto niente, neanche un centesimo. Mi ricordo l’addio, presto all’alba, dove piangendo ho regalato a Pema l’unica cosa che avevo e a cui tenevo molto, una piccola croce, niente di che , ma ho visto lacrime scendere sul viso della mia amica e so che aveva capito. Sapevo anche che non l’avrei rivista presto. Pietro, inusualmente silenzioso negli ultimi giorni, non ha fatto altro che parlare per tutto il tragitto (questa volta a piedi , 6 ore ) verso l’aeroporto di Jomson . Continuava a dire che dovevamo fare qualcosa, noi che siamo privilegiati con il lavoro che facciamo. Che la cultura mustangi è troppo preziosa e se scompare sarà anche colpa nostra perché non abbiamo fatto nulla per impedire che ciò accada. Aveva mille idee e ci siamo promessi di tornare al più presto.Com’è strana la vita. Penso che nulla accade per caso e forse non era il momento giusto per “fare qualcosa” . Sono rimasta incinta poco dopo, poi la bimba era troppo piccola per portarla, poi il lavoro, la casa, di nuovo il lavoro e così i nostri sogni sono rimasti lì. Ma nel frattempo arrivavano notizie da Pema e Tenzin. Siamo sempre rimasti in contatto. Qualche settimana dopo la morte di Pietro mi ha chiamato Alberto, commosso, diceva che Tenzin aveva saputo da non so chi e come e così era venuto a Jomson per fare la telefonata e farmi sapere che nel villaggio hanno fatto la puggia ( una preghiera fatta dai monaci tibetani nelle occasioni speciali che può durare anche un giorno intero) per lo spirito di Pietro. E io ho capito che era il momento di tornare e “fare qualcosa” .Otto anni dopo, una figlia, un amico – Alberto, sono tornata a casa di Tenzin e Pema con una motivazione forte ma senza un’idea precisa. Ho visto che la nostra idea iniziale oggi si è trasformata in un’urgenza. Ho fatto altri quattro viaggi più una spedizione fino a Lo Mantang e ancora più su verso il confine con la Cina, con un gruppo di medici agopunturisti per saperne di più sulla cultura, sulle tradizioni e la lingua del Mustang. Ho visto e vissuto. Nel mio piccolo chiaramente. Cercando di guardare con il cuore e di non essere troppo accecata dalla ricerca di “qualcosa” . Dopo un anno e mezzo ho capito che la cosa giusta da fare era la costruzione di una scuola.Ps. Nel progetto sono coinvolti direttamente Alberto, Tenzin , Pema , tutta la famiglia di Tenzin , la comunità intera del villaggio Ghemi, Kunzom (una ragazza Mustangi , amica da 20 anni di Alberto che ha vissuto 10 anni in America e ha deciso di tornare per curare questo progetto in prima persona), Shyam e Hari (amici nepalesi che oramai sono romani) e miei amici e soprattutto amici di Pietro che mi aiutano tutti i giorni nella realizzazione del nostro sogno.
Roma 20 febbraio 2012
Kasia Smutniak,